Partito di Alternativa Comunista

Concorsi pubblici: le donne discriminate

Concorsi pubblici: le donne discriminate

 

 

 

di Rosetta Ferra

 

 

Il 14 luglio 2023 è diventata operativa la riforma dei concorsi pubblici, frutto dell’esperienza delle riforme varate «in via emergenziale» per la pandemia da Covid 19. Il Governo, in linea con i principi del Pnrr, ha iniziato ad attuare nuove regole per l’accesso al pubblico impiego. La riforma introduce alcune novità sulle riserve e le preferenze per i candidati: ma quali sono le «nuove tutele» per la parità di genere (uomo – donna) previste dalla riforma dei concorsi pubblici 2023?

 

Se «tutela» significa discriminazione

Lo scopo è tutelare il genere meno rappresentato attraverso il titolo di preferenza. Qualora la differenza tra i sessi sia superiore al 30%, si applica il titolo di preferenza – a parità di titoli e meriti – in favore del genere meno rappresentato. Inoltre, le amministrazioni pubbliche devono garantire la partecipazione alle prove alle donne impossibilitate a rispettare il calendario fissato dal bando a causa dello stato di gravidanza o di esigenze legate all’allattamento. In tali casi, le donne hanno diritto a svolgere prove asincrone e, in ogni caso, deve essere assicurato loro l’accesso ad appositi spazi per l’allattamento.
La riforma, se a un primo sguardo potrebbe sembrare favorevole alle donne, deve essere sviscerata nel merito, in quanto seppur nell'inserimento lavorativo vi sia una parvenza di «supporto» nella vita quotidiana, nei fatti sono lasciate da sole nel fare le equilibriste tra lavoro e vita familiare, a farsi bastare un reddito che solitamente è inferiore ai colleghi maschi o a essere penalizzate nei ruoli dirigenziali.
Approfondiremo questi aspetti in seguito, intanto analizziamo il primo paradosso che si è concretizzato con la nuova riforma. Il Cnr, infatti, nel suo concorso pubblico applicherà la preferenza di genere al sesso maschile, e già qui ci sarebbe da ridire in quanto è risaputo che nelle materie Stem (abbreviazione dall'inglese di scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) le donne sono sempre pochissime. È prevedibile che anche in altri settori si applicherà lo stesso criterio a favore del genere maschile, ad esempio la scuola: di fatto, questa «tutela» si tradurrà in discriminazione ai danni delle donne. Basti pensare che negli ultimi anni il numero di donne con ruoli dirigenti nella pubblica amministrazione si è ridotto. Un fenomeno che ha coinvolto quantomeno gli ultimi tre governi e che risulta evidente per quanto riguarda i vertici dei ministeri.
Lo squilibrio di genere nei ruoli apicali è presente in quasi tutti i dicasteri, anche se in misura diversa. In alcune strutture non si trovano proprio donne in posizione dirigenziale. Questo dato è in parte conseguenza di scelte del governo Meloni, anche se non esclusivamente. Ad ogni modo ad ora sono 72 gli incarichi apicali che hanno ricevuto una prima nomina o una conferma dopo l’entrata in carica del governo Meloni.
Quindi se da un lato l’esecutivo in carica non può essere considerato l’unico responsabile della situazione attuale, dall’altro le nomine su cui ha avuto un ruolo sono ben più della metà. Tanto per ribadire che avere al governo una donna non aiuta le donne, perché non serve una donna qualsiasi al governo per avere un governo migliore per le donne... anzi, nel nostro caso, è esattamente il contrario.
I governi esplicitano persino nella propria composizione la discriminazione di genere. Ovviamente, se anche mettessero delle donne ai vertici, le politiche non cambierebbero. Ma è interessante notare come la contrazione del numero di donne al vertice dei ministeri si sia accentuata negli ultimi anni. Sul finire del 2019 la percentuale di donne in posizione dirigenziale era più alta di 11 punti percentuali (41,4%). Negli anni successivi, con al potere prima il secondo governo Conte e poi il governo Draghi, questo dato si è ridotto. Il minimo è stato raggiunto a fine 2021, con il 35,9%, poi risalito al 37,6% nel giugno successivo. Allo stesso tempo si può osservare come, ad eccezione del dicastero del turismo, guidato dalla ministra Santanché, tutti gli altri ministeri con una quota di donne nel ruolo di dirigente inferiore al 30% hanno un uomo al proprio vertice politico.

 

Quale parità?

Uomini e donne non sono uguali. Da qualunque prospettiva si guardi le donne continuano a essere penalizzate quando abbandonano le mura di casa e vanno a lavorare. Non soltanto e non solamente per l'aspetto salariale – in Italia per ora un minimo di parità salariale è garantita dai contratti nazionali – ma in genere. Uno scostamento nelle retribuzioni si vede anche nei ruoli dirigenziali, ma ciò che si osserva chiaramente è la disparità nelle posizioni ricoperte.
E il settore privato non è da meno. Infatti, seppure la parità sia a parole raggiunta per le posizioni di entry level (i giovani neolaureati che hanno un paio anni di lavoro alle spalle), è un dato di fatto che le aziende fanno programmi a medio-lungo termine e anche le donne, almeno sul tema maternità. E si osserva che solo pochissime riescono ad andare avanti nella carriera. Infatti nel mondo del lavoro la maternità è ancora considerata un problema.
Se si osserva la distribuzione tra quadri e dirigenti, si vede che tra i quadri la percentuale di donne è maggiore, scendendo nel middle management si arriva al 25%, ma le presenze femminili crollano al 15% quando si guarda alla dirigenza, dove gli uomini arrivano a ricoprire l'85% delle cariche. Sono facilmente identificabili i motivi chiave che impediscono alle donne di raggiungere posizioni di vertice. Le culture del mondo capitalista che chiede disponibilità «ovunque e in qualsiasi momento» svantaggiano le donne in modo sproporzionato a causa delle loro responsabilità familiari, peso da sempre scaricato sulla donna dal capitalismo e dal maschilismo che ha generato. Un altro motivo che impedisce alle donne di accedere a posizioni dirigenziali è il fenomeno della «tubatura forata», cioè la tendenza alla riduzione della proporzione di donne manager man mano che si sale nella gerarchia.

 

Fatti, non parole

È necessario migliorare, sia per i lavoratori che per le lavoratrici, le politiche che supportano l’inclusione e la conciliazione tra lavoro e vita privata, come orari di lavoro flessibili e congedi paternità. L’Italia è uno dei Paesi d’Europa con i dati peggiori, il che è tutto dire: dovrebbe avere 100 mila posti in più negli asili nido per essere al pari con la media Ue.
I posti negli asili nidi mancano, le mamme devono fare le equilibriste per cercare di mantenere il lavoro oppure devono ripiegare forzosamente sul part-time per conciliare la vita professionale e quella familiare, peggiorando di fatto così il gap salariale e penalizzando la loro indipendenza economica, che in alcuni casi estremi porta la vittima a dover convivere col carnefice perché non ha una reale indipendenza economica seppur lavorando.
A peggiorare le cose è il fatto che i posti disponibili negli asili nido non siano distribuiti in modo uniforme in tutto il Paese, infatti il divario tra Nord e Sud continua, con 18,5 punti di differenza nella copertura di asili nido e servizi prima infanzia tra Centro-Nord e Mezzogiorno.

La statistica Istat che però dovrebbe farci allarmare è quella riguardante il lavoro di cura, ancora principalmente sulle spalle delle donne. Un rapporto di Save the Children del 2021 dal titolo «Le equilibriste» riporta l’ultima rilevazione dell’«Indagine sull’Uso del tempo» (2014): i padri dedicano 2 ore al giorno ai figli, contro le 6 ore e mezza delle madri. I padri hanno trascorso in media 44 minuti al giorno a relazionarsi con i figli, mentre per le madri più di un’ora e mezza, con 22 minuti per giocare o parlare con loro.

Il punto è che avere un figlio oggi non significa solo poterlo mantenere, garantirgli il cibo, abiti, e beni essenziali. Significa avere il tempo di ascoltarlo, di parlarci, di seguirlo per indirizzarlo in un mondo estremamente complesso. È fuor di dubbio che la mancanza di risorse per la genitorialità, per gestire i figli mentre i partner lavorano, o per aiutare le famiglie a pagare i servizi di cui hanno bisogno, è cruciale. Ma non tutti gli aspetti della gestione dei figli si possono delegare completamente alla scuola o ai doposcuola.

Serve un reale intervento che abbatta le doppie oppressioni delle donne, non decreti che vanno e vengono, o leggi fatte in momenti favorevoli per essere ritirate appena cambia il vento. Le donne lavoratrici sono vittime del capitalismo e del maschilismo da esso generato: le donne proletarie devono unirsi e lottare per abbattere la doppia oppressione di cui sono prigioniere, per costruire una società diversa, socialista, che garantisca nei fatti la parità di genere.

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